Michela Occhipinti

LETTERE DAL DESERTO
un film di Michela Occhipinti, 2010, 88min
lingua Hindi sub English, Italian, French, Spanish
soggetto e sceneggiatura Michela Occhipinti
produzione Michela Occhipinti
riprese Pau Mirabet
montaggio Antonella Bianco

Il mondo corre. Hari cammina. Le sue scarpe consumate percorrono lunghe distanze nel deserto per recapitare messaggi chiusi in lettere scritte a mano, dalla calligrafia preziosa, da consegnare a destinatari che abitano villaggi sperduti, chiusi in una dimensione temporale dimenticata, fuori dal mondo.
Le lettere parlano di amori, matrimoni, successi e decessi. Quelle che portano la morte si riconoscono subito, sono quelle con l’angolo destro tagliato, che Hari legge sull’uscio ad alta voce e poi strappa, perché le brutte notizie vanno distrutte, disperse, cancellate per sempre.
In un mondo in cui il tempo è un lusso, la velocità è sinonimo di efficienza e civiltà, e dove si comunica premendo tasti che riproducono caratteri tutti uguali, la storia di Hari è un’isola cristallizzata nel tempo. Quando l’unico modo per comunicare era un foglio, una penna, l’inchiostro. Quando la gente era ancora in grado di aspettare. Un ritorno alla lentezza, e alla natura, quella inospitale del deserto del Thar. Finché arrivano delle strane torri metalliche, intruse nel paesaggio, a rivoluzionare la vita del piccolo villaggio…
“Lettere dal deserto (elogio della lentezza)” è il primo lungometraggio di Michela Occhipinti, che ha partecipato a circa 80 Festivals nel mondo ricevendo più di 20 premi, che lo hanno reso il film documentario italiano più premiato del 2010.

Note di regia
L’idea del film è nata mentre cercavo di capire come raccontare un paradosso della nostra società che mi toccava profondamente. L’intento era però di narrarlo attraverso una simmetria uguale ma opposta in un’altra società, con una cultura diversa. Dopo aver letto un breve articolo sui postini del deserto del Thar e delle loro lunghe peregrinazioni è stato chiaro per me che quella era la mia storia, dovevo solo metterla a fuoco. Non per parlare di India, anche se poi son venuti fuori dei tratti tipici quali la dignità e l’accettazione, che son divenuti parte integrante della narrazione.
Volevo scegliere un protagonista unico e seguirlo con le videocamere. Poi una volta partita per i primi sopralluoghi ho incontrato tanti postini e ho inserito alcune delle storie ascoltate da loro in quella del protagonista, Hari.  Ho quindi scritto una sceneggiatura basata su queste esperienze ma con dei dialoghi aperti che ho composto in fase di riprese insieme ai miei personaggi. Lasciando anche spazio all’inaspettato.
Una storia apparentemente minima, in cui trapelano vari simbolismi: le lettere non solo come forme di comunicazione ma come assenza, tanto fisica quanto animica; il cane, si ferma sulla duna a prendere aria, arriva per caso, nel film rappresenta la fedeltà del postino. Gli uccelli, che entrano ed escono di scena in continuazione, sono in fondo dei messaggeri alati, come lo è Hari, un eroe solitario d’altri tempi. I lucchetti disseminati qui e là racchiudono un contenuto segreto come le lettere: vanno aperti per essere svelati. Il deserto in sé non è uno spazio casuale. La rappresentazione del tempo più basica è la clessidra che è fatta di sabbia che scorre e anche qui il vento sposta la sabbia cambiando la conformazione delle dune e del paesaggio e, metaforicamente, anche il tempo. Il deserto infine, anche come luogo metafisico dove andiamo per ritrovare noi stessi e fare silenzio.
Il film è una riflessione sul progresso. E’ il mio sguardo sul concetto di tempo e di spazio. Del tempo nello spazio e dello spazio nel tempo. Della fragilità della bellezza. Una piccola malinconia. Una sorta di fermo immagine di un mondo che è in via d’estinzione. La fotografia di un momento di transizione. Il fotogramma dell’attimo esatto in cui arriva un elemento estraneo che porta cambiamento.

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