Rose Lowder: Far vedere più di ciò che si è filmato

Traduzione a cura di Nomadica. Dallo speciale dedicato dalla rivista Lumière a Rose Lowder in occasione del programma curato da Francisco Algarín Navarro per il Weekend on the moon

Far vedere più di ciò che si è filmato. Intervista a Rose Lowder
di Éric Thouvenel, Carole Contant



Nata nel 1941 in Perù, Rose Lowder si forma artisticamente prima in Perù e poi in Inghilterra, e in seguito lavora per 10 anni come montatrice nell’industria cinematografica e televisiva di Londra, negli anni ’60, periodo in cui scopre il cinema sperimentale grazie agli incontri organizzati dal poeta Bob Cobbing nella libreria Better Books. Arriva in Francia nel vortice degli anni ’70 e si trasferisce ad Avignone, dove inizia a realizzare film in 16mm, e a questo formato è sempre rimasta fedele. Film montati in camera (cioè, senza montaggio, almeno non nel senso comune del termine) e strutturati secondo uno schema preciso e rigoroso.
Un film dopo l’altro (a oggi sono più di 70), questo metodo si affina e si fa più complesso. Soprattutto, i procedimenti di ripresa di Rose Lowder diventano inseparabili da una profonda riflessione sul colore – anche se si tratta di bianco e nero – e sulla differenza fra immagine impressa (sulla pellicola) e l’immagine percepita (dallo sguardo dello spettatore). La serie Bouquets, iniziata nei primi anni ’90, è la parte più visibile di una lunga meditazione sulle potenzialità del cinema o, riprendendo il titolo della tesi sostenuta da Lowder nel 1987, del cinema sperimentale come strumento di ricerca visiva. In questo senso, la consultazione dei suoi quaderni preparatori è illuminante: dopo un grande lavoro di ricerca delle location per ogni film, durante la fase di ripresa in essi registra fotogramma per fotogramma lo strutturarsi del film in lavorazione. Questi quaderni sono già un’opera in sé, perché mostrano su carta, in modo lineare, l’esplosione visiva e colorata del film nella sua forma finale.
Cofondatrice e infaticabile programmatrice degli Archives du Film Expérimental d’Avignon, Rose Lowder ha svolto anche un lavoro di diffusione del cinema sperimentale, con svariati programmi, conferenze e testi teorici, in Francia e in giro per il mondo.
È anche, soprattutto negli ultimi 20 anni, un’ardente sostenitrice di un modo di vita sensibile alle problematiche ecologiche, di cui i suoi film, come anche i suoi metodi di lavoro e la scelta dei suoi strumenti, sono un’emanazione diretta.
Abbiamo incontrato Rose Lowder a Parigi, all’Istituto Finlandese, dove stava preparando una proiezione dei suoi film. Nella hall piccola ma accogliente, stando attenta ad occupare poco spazio – così come a lasciare sul nostro pianeta un’impronta minima e rispettosa – ha risposto alle nostre domande e svelato alcuni degli aspetti più complessi del suo lavoro con una chiarezza esemplare, senza dimenticare l’entusiasmo con cui ci ha raccontato quella che possiamo definire decisamente una vita dedicata al cinema. Dandoci soprattutto una testimonianza del suo pensiero nel parlare delle riprese di Fleur de sel (2006-2010), che è un po’ la quintessenza di quello che ha sempre cercato nel suo lavoro: un autentico scintillio nel cuore della natura.


Come ha iniziato a fare cinema sperimentale?

Non era per niente previsto, il che non vuol dire che sia successo per caso. Innanzitutto ho una formazione e un’esperienza ampie nelle arti plastiche. Ho iniziato a frequentare workshop di artisti peruviani e americani quando avevo circa nove anni, in Perù. Al terzo anno delle scuole superiori ho frequentato il corso serale della Escuela de Bellas Artes di Lima, e dopo due scuole d’arte a Londra: la Regent Street Polytechnic, che non esiste più, e la Chelsea School of Art. Sono molti i dettagli, pratici, economici, sociologici, e artistici che spiegano il mio percorso. Inoltre ho dovuto sempre lavorare per vivere. In Perù ho fatto l’insegnante, poi un altro lavoro di sostentamento mentre studiavo. Dopo sono entrata nell’industria cinematografica: sono stata montatrice per una decina di anni, in diversi posti, tra gli altri in particolare alla BBC di Londra per un anno. Ho fatto tutti i tipi di montaggio, lungometraggi, documentari, film su commissione, spot pubblicitari. La situazione a Londra era un po’ particolare: quando lavoravo come montatrice, ci fu tutta una storia intorno al poeta americano Bob Cobbing e al film di Jean Genet (Un chant d’amour, 1950), che in Francia era stato censurato. Negli Stati Uniti alcuni finirono in carcere per aver proiettato questo film. Bob Cobbing venne a Londra con il film sottobraccio affinché la polizia non lo requisisse. Aprì una libreria in un angolo di Charing Cross Road, che si chiamava Better Books, nella quale c’erano molte cose interessanti, soprattutto libri su autori americani underground. Quando visitai la libreria seppi che vi si organizzavano anche delle proiezioni cinematografiche. C’era una piccola stanza sul retro, in cui lui proiettava film di cineasti che non potevi vedere da nessun’altra parte, oltre al film di Jean Genet o Le Cirque de Calder (Carlos Vilardebo, 1961) o i film di Robert Breer, oltre ad altri numerosi film di artisti plastici e di cineasti definiti “sperimentali” di quel periodo. Non si presentava proprio così, ma era l’attività principale della libreria. Fu lì che vidi i primi film realizzati al di fuori dell’industria, agli inizi degli anni ‘60. Fu lì che scoprii che si poteva lavorare come cineasta pur essendo un artista plastico, visto che la maggior parte degli autori proiettati, così come del pubblico, era formata da artisti plastici. Gente come Malcolm Le Grice, che conosceva quel tipo di produzioni, iniziava a introdurre la pratica cinematografica nelle scuole di arte a Londra.
Non avevo avuto nessun contatto con il cinema alla scuola d’arte, era ancora troppo presto. Partecipando a queste sessioni di proiezioni da Better Books non pensavo di diventare una cineasta, ma lo tenni a mente, e, mostrando film, mi resi conto che si potevano fare molte cose che erano impossibili nell’ambito dell’industria. Inoltre, all’epoca, la BBC era interessante: per un periodo ero stata assegnata a un settore dedicato a «tappare i buchi» tra le varie trasmissioni. Lavorai con un montatore che faceva molti giochi visivi. Con gli scarti o le doppie riprese di altri film ormai completati realizzavamo altri film. Cosa che non sempre piaceva ai registi in questione. Era possibile sperimentare. Era un gioco, realizzavamo anche film fatti male appositamente, mostrando ciò che era proibito nelle solite pratiche di realizzazione, però sfortunatamente andarono troppo bene, e dato che il lavoro era straordinario chiesero al montatore di usare il suo talento per una nuova ambiziosa trasmissione, mettendo così fine alla nostra collaborazione.
Dopo, lavorando nell’industria, mi resi conto che le cose venivano fatte più o meno sempre allo stesso modo. C’erano film eccezionali ogni tanto, però nel lavoro quotidiano seguivamo le regole, si girava sempre allo stesso modo. Ebbi un’esperienza molto esplicita in questo senso quando un regista volle che montassi un film in un modo impossibile rispetto a ciò che era stato girato: per risolvere il problema tornai sull’intera sequenza così com’era prima del montaggio, poi chiamai un montatore con più esperienza e gli chiesi di aiutarmi, perché non sapevo come montare quelle sequenze secondo le richieste del regista. Il montatore venne, rimontò le sequenze, e sia i raccordi che i fotogrammi restavano esattamente come nella mia versione. Allora mi resi conto che con un po’ di esperienza e con un determinato materiale si faceva sempre la stessa cosa. A volte proponevo delle cose che a mio avviso erano più originali, per capire se potevano essere accettate. Succedeva di rado. Una volta, alla BBC, misi un’immagine al contrario, per vedere se qualcuno se ne accorgeva. C’erano una dozzina di persone nello studio, e misero i crediti iniziali con gli ombrelli sottosopra, senza che nessuno se ne preoccupasse…


Frequentava anche le proiezioni della London Filmmakers’ Co-op, che era nata nel 1966?

Molto più tardi ho potuto partecipare ad alcune proiezioni, e mi invitarono a presentare i miei film alla LFMC nel 1980. Non presi parte alla sua fondazione né lavorai a dei film lì, semplicemente perché non avevo tempo. Quando si lavora nell’industria cinematografica non si ha la disponibilità che si ha quando si è studenti d’arte, o insegnanti, che hanno degli orari più flessibili. Inoltre ancora non ero orientata verso una mia pratica personale di cineasta nel periodo in cui nasceva la Co-op di Londra.


Come ha iniziato a realizzare dei film?


Non ho realizzato film finché non sono arrivata in Francia. Mentre lavoravo nell’industria ricordavo che era possibile fare film come artista, però non avevo quell’ambizione. È chiaro che i miei film si basano sulla mia formazione artistica, però anche su una cultura più ampia: quando ero studentessa a Londra, c’erano artisti conosciuti che davano lezione, e, inoltre, tutti i musei erano praticamente gratuiti. Anche se ero una montatrice cinematografica a volte mi dicevo: «Ho fatto abbastanza per oggi, vado a vedere delle opere in quel museo o in quella galleria». Ero costantemente in contatto con il mondo artistico di quel periodo, anche perché il quartiere in cui lavoravo era molto vicino alle gallerie e ai musei del centro di Londra. Quindi conoscevo molto bene quello che accadeva nell’arte, anche se non avevo l’ambizione di essere una grande artista, perché ero consapevole che guadagnarsi da vivere facendo l’artista era molto complicato. Inoltre sapevo che c’erano artisti del tutto incapaci che guadagnavano molto bene, e artisti molto bravi che non guadagnavano per niente. Nel cinema è lo stesso. Non ero ingenua: l‘industria era una questione alimentare.
Arrivai a realizzare dei film per altre vie. Per esempio, c’erano un sacco di cose che non capivo: si dice che la pellicola 16mm funziona a una velocità di proiezione di 24 frame al secondo, però mi resi conti che le immagini sullo schermo non sembravano avere sempre la stessa durata, anche se tutte le immagini avevano un’identica dimensione. Questo mi incuriosiva: avevo bisogno di conoscere il funzionamento della successione delle immagini cinematografiche. Quando mi trasferii ad Avignone, alla fine del 1972, visto che non lavoravo più nell’industria, non avevo orari limitanti. Facevo lavori diversi, pulivo condomini, lavoravo nelle poste, ecc. Però il fatto che sullo schermo si vedesse qualcosa di diverso da ciò che stava sulla striscia di pellicola continuava a incuriosirmi. Fu in quel periodo che iniziai a studiare dei testi sulla percezione. Trovai un vecchio proiettore abbandonato, pezzi di pellicola 16mm trasparente, una perforatrice e dei pennarelli più o meno sottili di vari colori. Per sapere come funzionava l’immagine cinematografica, per un anno o due, unii dei pezzi di pellicola formando dei tratti grafici in loop, con l’idea di studiarne gli effetti visivi sullo schermo. Non ho qui i disegni, ma, semplificando, proverò a spiegare come iniziarono questi studi sulla visione.
Per dirlo in sintesi, quello che vediamo sullo schermo è un’immagine composta, cioè, la percezione interviene dopo che sono stati stimolati diversi recettori. A seconda dei simboli che percepiamo questi vengono elaborati dal cervello in un tempo più o meno lungo. La maggior parte dei recettori sono specializzati, cioè sono più stimolati, ad esempio, dalle linee, o dalle forme o dai colori, ecc. Visto che ciò che vediamo sullo schermo è una composizione che, a partire dalle caratteristiche dei fotogrammi che si succedono, viene costruita dal nostro sistema percettivo, volevo capire come poter intervenire in questo meccanismo. Pensavo a diversi aspetti: quando filmiamo in modo tradizionale, a 24 frame al secondo, abbiamo 24 immagini fisse, però, poiché ogni immagine viene registrata in successione nello stesso luogo, queste immagini risultano essere molto vicine nel tempo che nello spazio, quindi sono molto simili, cosa che permette al sistema percettivo di unificarle per formare un’unica immagine in movimento. Mi posi la domanda: possiamo intervenire in modo tale che le immagini si intreccino diversamente? Iniziai a realizzare diverse prove grafiche disegnate su pellicola 16mm. Per esempio, se tracciamo una linea retta colorata su un pezzo di pellicola trasparente, e dopo perforiamo la striscia di pellicola con una perforatrice, così da avere un buco rotondo, un cerchietto nel centro di ogni immagine in successione, quello che vedremo sullo schermo sarà un’immagine con un buco al centro e la linea sopra e sotto il cerchio. Però se distanziamo i buchi, perforando soltanto un frame ogni due, sullo schermo vedremo una linea che attraversa il buco. Siccome, in realtà, un buco in cui non c’è niente non può diventare una linea, scopriamo che ciò che sta concretamente sulla pellicola non corrisponde a ciò che viene percepito sullo schermo. Quello che si percepisce è un’immagine composta dalla proiezione di una serie di dati visivi in successione. Continuando, questa maniera di procedere permette di curvare la linea colorata cosicché sullo schermo appaia prima davanti e dopo dietro il cerchietto perforato sulla pellicola.
Dopo provai a far apparire simultaneamente sullo schermo immagini composte da vari fotogrammi che invece sulla pellicola erano in successione. Iniziai con delle cose semplici, per esempio in Parcelle (1979). Prendendo come riferimento una cartolina di invito a una mostra, che aveva un piccolo quadrato al centro, filmai fotogramma per fotogramma, al posto del piccolo quadrato, dei quadrati minuscoli o dei cerchi colorati aumentando o diminuendo la frequenza o il numero di fotogrammi registrati, in mezzo ad altri fotogrammi monocromatici, neri, bianchi o di vari colori. In proiezione, possiamo vedere, per esempio, un cerchio che cambia colore in mezzo a un quadrato di un altro colore. Sulla striscia pellicola, al contrario, c’è un quadrato in un fotogramma, un cerchio nell’altro, e a volte fotogrammi neri, bianchi o di altri colori interposti fra i due.
Questi primi film mi permisero di provare il funzionamento del sistema cinematografico che consiste nella proiezione di una successione di immagini fisse che producono un’evoluzione di immagini in movimento sullo schermo, di forme diverse a seconda delle caratteristiche dei singoli fotogrammi. Questo mi portò a lavorare sulla distanza tra quello che c’è sulla pellicola e quello che appare sullo schermo. Poco a poco scoprii ciò che si poteva fare. Non avevo nessuna formazione scientifica che potesse aiutarmi nello studio dei testi sulla percezione. Lavorai per circa 3 anni realizzando segni grafici su diversi tipi di pellicola. Poi, dopo aver fatto, fra gli altri, un film come Parcelle, che era relativamente semplice perché potevo manipolare degli oggetti, provai a lavorare con la realtà, che non si può manipolare così facilmente. Non volevo dirigere attori, né montare, né seguire le pratiche abituali del cinema. Così iniziai a lavorare in due modi diversi: in primo luogo su pellicole lavorate fotogramma per fotogramma, come in Parcelle, però con elementi della realtà. Rue des teinturiers (1979) o Champ provençal (1979), per esempio, li realizzai quasi contemporaneamente. In Roulement, Rouerie, Aubage (1978), lavorai utilizzando anche la messa a fuoco. In questo film l’unico soggetto era una ruota a pale che girava. Filmai dei dettagli da molto vicino per iniziare, semplicemente inquadrando in modo diverso con varie focali le differenti parti della ruota. Siccome girando si avvicinava e allontanava di continuo era il soggetto ideale per lavorare sul fuoco. Allo stesso tempo, sperimentai un bel po’ sia con il bianco e nero che con il colore. In Roulement utilizzai una pellicola per la luce diurna normale, 80 ASA. Poi, in Rouerie (1), filmai con una 200 ASA, quindi con una pellicola molto più granulosa, e dopo girai in pieno sole con una pellicola 400 ASA, che di solito si usa quando non c’è molta luce. Dopodiché, pensai che a colori sarebbe stato tutto diverso. Tornai a casa e trovai una pellicola a colori, che utilizzai per Aubage. Con il colore si ha più volume, mentre in bianco e nero è l’aspetto grafico a essere interessante. Questa prima lezione dimostrava in che modo la pellicola può innanzitutto interagire con le diverse caratteristiche di un’immagine. In seguito, per film come Rue des teinturiers, che è a colori, ho lavorato su due aspetti: la ripresa fotogramma per fotogramma che avevo utilizzato in Parcelle, e il lavoro con la messa a fuoco che avevo usato in Roulement, Rouerie, Aubage. Questa volta però si trattava di un lavoro «sulla realtà»: modificare il fuoco, modificare l’inquadratura. In questo film ci sono tra sette e tredici focali diverse, in base alle bobine. Ogni volta che cambiava il fuoco, evidentemente, avevo un’immagine totalmente diversa. Ci sono immagini molto ravvicinate delle piante che stavano sul balcone, che si mescolano, sullo schermo, con le automobili o le persone che passavano per una strada lontana. A partire da queste immagini riprese in momenti differenti, l’immagine composta sullo schermo mostra non solo le foglie e il tronco dell’albero ma anche quello che sta dietro le foglie o il tronco, perché l’immagine percepita sullo schermo è formata da fotogrammi ripresi in successione di elementi della realtà posti a distanze diverse dalla camera. Nei film di questo periodo, lavoravo anche alternando la quantità di fotogrammi registrati con questa o quella focale. Poteva esserci una messa a fuoco, quindi, per un solo fotogramma, e quella successiva per due, tre fotogrammi, ecc. C’era anche una ciclicità delle riprese nello spazio, e quindi una composizione delle immagini in continua evoluzione: si può tornare a un fuoco già utilizzato, però per un numero diverso di fotogrammi, e questo modifica la composizione che viene percepita sullo schermo. A differenza nostra la camera ha un solo occhio, così provai a ovviare a questa differenza. Inoltre, quando guardiamo un quadro, anche se lo conosciamo molto bene, non lo vediamo mai due volte con la stessa forma, perché in un modo o nell’altro siamo cambiati, e se l’opera d’arte è davvero di valore, dovrà poter essere vista numerose volte. Come una composizione musicale che ascoltiamo in un modo un po’ diverso ogni volta, scoprendo sempre cose nuove. Uno dei miei obiettivi consisteva nel fare qualcosa di simile con il cinema affinché dopo due o tre visioni, non si riuscisse a vedere ancora tutto quello che c’è sulla pellicola. In Retour d’un repère composé (1981), un film che è strutturato sulla base della ripetizione di una sequenza di immagini, durante la proiezione percepiamo continue variazioni.


Può parlarci degli strumenti con cui lavora? Di cosa ha bisogno quando realizza un film? Sceglie per esempio una camera piuttosto che un’altra in funzione di un determinato progetto?

Ho varie cineprese Bolex, ma le mie scelte sono legate a ragioni pratiche. Quando stavo in Cina nel 1988, dove ho filmato Beijing 1988, non presi quasi niente, a eccezione di un enorme vecchio obiettivo e una Bolex meccanica. Inoltre, visto che c’era un rivenditore Bolex in un paese vicino ad Avignone, presi una cinepresa a motore di seconda mano, che mi permetteva di lavorare su più progetti alla volta. Molti miei film sono stati realizzati con una cinepresa meccanica, come gran parte di Quiproquo (1992). Il problema è che quando si ha una Bolex a motore, se si vuole filmare fotogramma per fotogramma, per la camera è uno shock, per questo bisogna avere un piccolo dispositivo tra la camera e il motore, altrimenti si ferma subito. È quello che mi è successo con Quiproquo, ed è per questo che l’albero con i fiori è stato filmato con una camera a manovella. Anche nei Bouquets (2) la camera si è fermata. All’inizio avevo un piccolo motore che posizionavo dentro la camera, però quando si lavora fotogramma per fotogramma in modo intensivo, come nel mio caso, non è sufficiente. Per il Bouquet 8 (1994) giravo con l’acqua che mi arrivava alle ginocchia, a due ore di macchina da casa mia, e dovevo rientrare per caricare la batteria, e dopo tornare e rimettermi un’altra volta in acqua. Ora utilizzo una batteria più potente. Man mano mi sono attrezzata con vari strumenti cinematografici, ma ho anche costruito piccoli accessori adatti al mio metodo di lavoro. Ho una scatola di scarpe piena di cose… Tra queste cose che non costano nulla, ma che necessitano di molto tempo per essere ideate, c’è un modello di partitura, fotogramma per fotogramma, che mi permette di sapere quello che ho filmato, e quello che non ho ancora filmato. Come si può vedere dalle pagine dei miei quaderni di appunti, ci sono 24 immagini per colonna, cioè un secondo, oppure uno accanto agli altri per due, o tre, o venti secondi. I contafotogrammi delle Bolex permettono di lavorare fotogramma per fotogramma in modo molto preciso. Per il titolo dei Bouquets, per esempio, si può filmare la lettera «B», poi l’immagine di un’altra cosa, poi la lettera «O», e così via, e questo permette di vedere sullo schermo le lettere del titolo del film mischiate a fiori di diversi colori.


Quando guardiamo le partiture visive dei suoi film, osserviamo che le colonne dei fotogrammi sono raggruppate e numerate in gruppi di tre. Ha a che fare con le possibilità della sovraimpressione?

No, non c’è sovrimpressione. È un altro modo di lavorare, però non è originale. I puntinisti facevano qualcosa di simile quando mettevano un fiore rosso accanto a qualcosa di verde, per fare in modo che i colori fossero più consistenti, proprio perché vibravano insieme. Le macchie di colore non venivano poste l’una sull’altra, ma una accanto all’altra. Nel mio caso posso filmare, per esempio, un fiore rosso in un fotogramma, poi lasciare due fotogrammi senza nessun’immagine. Poi, riavvolgendo la pellicola, slittando di un’immagine, posso fare lo stesso con un altro fiore, questa volta giallo. Dopo, riavvolgendo un’altra volta, posso slittare di un altro fotogramma e filmare un fiore blu. Sulla pellicola avremo un fiore rosso, poi un fiore giallo e poi uno blu, ma sullo schermo percepiremo simultaneamente un bouquet di fiori di tre colori differenti. Quindi, non c’è sovrapposizione sulla pellicola, ma piuttosto un accavallamento sullo schermo. Voiliers et coquelicots (2001) è fatto in questo modo. Come prima cosa in una serie di fotogrammi ho filmato dei papaveri in un campo, dopo tre mesi sono andata a Marsiglia per filmare le barche a vela nei fotogrammi che non erano ancora stati impressionati. Se osserviamo la striscia di pellicola, vediamo o le immagini dei papaveri o quelle delle barche a vela, senza nessuna sovrapposizione; invece sullo schermo le barche navigano «tra» i papaveri. Ho lavorato per un lungo periodo perché è una maniera di filmare abbastanza meticolosa. Mi ci sono voluti un po’ di anni per trovare il sistema di riportare in modo leggibile quello che avevo annotato sui miei quaderni. Queste partiture non erano concepite per essere mostrate, ma soltanto per me, affinché potessi studiare cosa funzionava e cosa no, per poter comporre l’immagine in camera nel corso della ripresa.


Per il modo in cui struttura i suoi film montandoli direttamente in camera, la partitura e il quaderno sono molti importanti. Certo, è la camera che registra le immagini, però se non avesse questi strumenti…

Non potrei lavorare. Senza non si potrebbe sapere ciò che si è fatto, non si potrebbe ricordare. All’inizio, in film come Rue des teinturiers, avevo sempre un’inquadratura fissa, restavo sempre nello stesso luogo. Inoltre, filmavo in un modo abbastanza lineare, le immagini della prima serie, poi della seconda, ecc. Quando ho filmato Impromptu (1989), seguivo questo metodo fino a un certo punto: abbiamo un albero, si gira a mezzogiorno, dopo alle 3 del pomeriggio e, visto che la camera permette di andare avanti e indietro con la pellicola, i due momenti si intrecciano nel girato. Quello che percepiamo sullo schermo è un albero che non si muove. Invece il sole cambia posizione e le foglie si spostano di continuo. Poi ci sono i personaggi che arrivano in un certo momento, cosa che non era nemmeno prevista, era davvero un impromptu, un’improvvisazione. C’era però un errore considerevole. In una parte della pellicola, non avevo aperto abbastanza l’otturatore per fare in modo che la luce in una serie di fotogrammi fosse uguale alla serie filmata precedentemente. Queste due successioni erano destinate a risultare intrecciate nel montaggio in camera. Quindi, per correggere l’errore, riavvolsi le due serie di fotogrammi per aggiungere un po’ di luce in sovrimpressione ai fotogrammi a cui mancava luce. Fu un errore molto utile, che mi permise di rendermi conto che potevo impressionare qualsiasi parte della pellicola, avanti o indietro, così come in un quadro si possono disporre delle macchie di colore su qualsiasi parte della tela, a condizione di avere una partitura che ci ricordi di averlo fatto. Tutto questo confluiva nel metodo con cui ho realizzato la serie Bouquets.
Rispetto alla luce non ho nessun metodo particolare per misurarla. Non sono portata per gli aspetti tecnici. Guardo il sole, quello che voglio filmare, e tengo in considerazione il tipo di pellicola che sto utilizzando. Nelle cineprese Bolex a motore, ci sono due diodi per lato, che andrebbero regolati in base al tipo di pellicola utilizzata. È uno strumento intelligente e molto utile, anche se di solito li regolo in modo diverso, secondo l’effetto desiderato.


Questo ci porta alla questione della pittura, ma anche alla scrittura e alla musica, anche se quasi tutti i suoi film non hanno suono. Lavorare così, utilizzando una partitura grafica, è una forma di scrittura cinematografica molto particolare…

Alcuni cineasti mi hanno detto di averci pensato, ma che era troppo difficile.


Nel suo lavoro di preparazione per i film, la fase di scrittura si svolge solo in questo modo o ci sono anche momenti in cui scrive su ciò che vuole realizzare, in modo diciamo più tradizionale?

Non scrivo mai rispetto a quello che voglio fare prima di girare. A volte, quando conosco il luogo o si tratta di un posto in cui ho già provato a filmare (come in Les Tournesols del 1982, per il quale girai diverse bobine), ho un’idea di ciò che farò, quando arrivo sul posto guardo la realtà di ciò che voglio filmare, la luce ecc., e dopo decido quello che posso fare quel giorno. Nel caso dei Bouquets, di solito non conoscevo il luogo in cui giravo prima di arrivare. Quindi non sapevo cosa avrei fatto. Normalmente penso a un posto o ad un altro per fare una certa cosa, vado e vedo che non è possibile, e torno a mani vuote. Mi capita anche di rendermi conto che le immagini non mi soddisfano, per diversi motivi, ad esempio se la luce non è come dovrebbe.


Quindi arriva in ogni posto con i suoi quaderni e le sue partiture ancora vergini, e compone a partire dallo schema, prima di iniziare a filmare con la camera?

Non compongo niente prima di filmare. Quando arrivo in un posto, guardo per vedere quello che si può fare. Nelle partiture annoto solo ciò che ho già fatto. A volte, si tratta di esplorare un territorio abbastanza ampio prima di trovare il posto giusto e posizionare la camera. In un film come Rue des teinturiers, scelsi di filmare solo in alcuni giorni dell’anno, per delle caratteristiche precise: ad esempio, ho girato l’ultima bobina quando c’era molto vento, per lavorare con il maestrale che dava alla luce un ruolo predominante per via del movimento dei rami sugli alberi. Un altro giorno, le nuvole nascondevano o mostravano la luce. Girai in base a questo, e seguendo ciò che accadeva per strada. Siccome un altro giorno la luce sembrava grigio-verde, aspettai che ci fossero delle automobili rosse per strada, o delle cose più colorate, così che l’immagine fosse più variegata. Sono piccole cose soggettive, non ho chiesto niente a nessuno.


Parla di pittura, di comporre un film in base al luogo e alle condizioni di ripresa: è una forma di fare cinema «a soggetto».

In questo senso sì. Il Bouquet 15 è stato filmato in una fattoria ecologica a 35 km da Torino, una meravigliosa piccola fattoria. Quando guardiamo il film, ci sono ritmi diversi. A volte giro in maniera «normale», a 24 fotogrammi al secondo. È una specie di punteggiatura in mezzo alle altre immagini, che sono intrecciate fra loro. Alcune cose si ripetono, c’è la stessa immagine in riprese diverse. A volte, ci sono anche degli errori, come nella vita, la camera filma all’indietro invece che filmare in avanti.


Come sceglie il tipo di pellicola che utilizzerà per un film?

Non c’è molta scelta, perché chi fabbrica la pellicola fa ciò che vuole. A volte usiamo un tipo di pellicola che dopo un po’ non esiste più. Negli anni ‘70 le pellicole a colori non si conservavano bene, al punto che alcuni importanti cineasti di Hollywood, minacciando di tornare al bianco e nero, costrinsero Kodak a modificarle. Così a partire da un determinato momento, potemmo avere delle pellicole che si conservavano per più tempo, ma di fatto non sappiamo se il negativo durerà 100 o 200 anni, come afferma il produttore. Siccome lavoro in esterni e con la luce naturale, di solito uso una pellicola per luce diurna poco sensibile. Ma mi capita di cercare un’immagine più sgranata, e in quel caso utilizzo un altro tipo di pellicola. Dipende dal progetto.


Dove sviluppa le sue bobine?

In questo momento lavoro con un laboratorio in Belgio, perché tutti i laboratori con cui ho lavorato a Parigi sono spariti.


Quali sono i cineasti o i film che l’hanno maggiormente influenzata, se ce ne sono?

È impossibile rispondere a questa domanda. Sta parlando a una persona che guarda film dagli anni ‘50, cioè da quasi sessant’anni. Non può chiedermi delle possibili influenze rispetto a un periodo così lungo. Ho seguito quello che accadeva nella danza, nella musica, nelle arti plastiche. Un quadro, anche se non si tratta di un’opera in movimento ma di un oggetto fisso, richiede un movimento da parte dell’osservatore. Per vedere un Monet, per esempio, bisogna spostarsi. Facendolo, ci si trova di colpo in un altro momento. Per capire davvero il quadro, non basta star lì, vedere che ci sono delle piante e dell’acqua e poi passare a quello successivo. Bisogna esaminare una serie di elementi: il modo in cui la pittura è stata applicata, la miscelazione dei colori e le loro relazioni, gli spazi fra gli oggetti, gli stessi oggetti, il rapporto tra ciò che è astratto e ciò che è figurativo… C’è tutto un lavoro da fare rispetto a ogni tipo di quadro che abbia un valore. Non si possono descrivere delle influenze, perché è una storia davvero troppo lunga.


A volte, ci sono anche fattori scatenanti, lo ha appena detto. Oppure cineasti che appartengono più o meno alla sua stessa «famiglia», come Peter Kubelka, per esempio, o Paul Sharits. Può trattarsi di una relazione con un dispositivo cinematografico vicino al suo, più di quanto accade con altri cineasti, come, ad esempio, Stan Brakhage, il cui lavoro è appassionante ma ha un altro tipo di relazione con il cinema…

Rispetto al lavoro non sono sicura che sia così. Faccio un esempio: alcune persone dicono che c’è una relazione tra i miei film e quelli di Peter Hutton, che ha fatto dei bellissimi film in bianco e nero. C’era una retrospettiva coi suoi film a Berna, e sono andata a vederli e a conoscerlo. È stato incredibile vedere dei film così belli, però non hanno nulla a che vedere con i miei. Si può dire che tutto ciò che vediamo di interessante ci alimenta. Ma mettiamo il caso che ci piacciano molto i pomodori: se mangiamo solo quelli, ci ammaliamo. Inoltre, siamo in un continuo cambiamento, per questo abbiamo bisogno di una varietà di alimenti, a seconda delle stagioni. Ha nominato Peter Kubelka: vivevo a Francoforte, dove insegnavo proprio nel periodo in cui anche lui stava lì. Si occupava delle lezioni di cucina. Ho visto il modo in cui insegnava, non lo avrei mai fatto allo stesso modo. Troppi ambiti diversi… e c’erano almeno due studenti che registravano tutto quello che diceva. È davvero impressionante, ma ciò che fa è qualcosa che appartiene a lui. Viene dalla musica, il suo lavoro è una prosecuzione nel cinema di ciò che ha appreso con la musica. Il suo lavoro è molto importante, ma non ha influito sul mio nel senso che non abbiamo lavorato sugli stessi temi e con gli stessi obiettivi. Ho conosciuto anche Brakhage all’Università del Colorado, dove ho presentato i miei film. Nei suoi film c’è un grande controllo della transizione da una cosa all’altra, una poesia particolare. Dicono che sia più vicina a Kubelka che a Brakhage, ma io risponderei: per niente! In un certo senso, mi piacerebbe di più provare a imitare Brakhage, perché Kubelka significa davvero troppo lavoro! Inoltre, Brakhage aveva carattere: era un personaggio… però era molto impegnativo. In ogni caso, era un bravo insegnante. Lavorava davvero bene con gli studenti. Brakhage ha influenzato molta gente, e a ragione, perché possiamo imparare molto dalla sua opera. E Sharits? Anche lui un tipo di artista plastico impossibile, peggio che Brakhage e Kubelka messi insieme! Era un artista plastico che ha adeguato ciò che aveva fatto nelle arti plastiche all’insegnamento: all’epoca, negli Stati Uniti, si poteva avere un posto come insegnante abbastanza facilmente. Nelle università c’era denaro a sufficienza per avere della strumentazione ottica, e questo permise di realizzare diversi film che sono pure bellissimi. Però è un’altra cosa. In quel caso, si tratta di puro colore. Credo che gli obiettivi di questi tre cineasti siano completamente diversi. Sono contributi molto preziosi alla storia del cinema sperimentale. Per questo le competizioni nei festival sono impossibili: perché le opere non sono paragonabili. Non si può dire che uno dei tre sia migliore degli altri, non fanno per niente la stessa cosa. Ci servono tutti.


Come finanzia i suoi film? Ha dovuto cercare soldi, lavorare con dei produttori, o li ha sempre auto-prodotti?

Finanzio io stessa tutto il mio lavoro. Ho avuto solamente un’esperienza molto brutta con una casa di produzione, per Fleur de sel, e non la ripeterò mai più. Di solito non chiedo sovvenzioni perché voglio essere totalmente libera. Conosco l’industria cinematografica, ne sono uscita proprio per fare quello che volevo. Inoltre, la situazione in Francia è molto ingiusta. Per esempio quando l’Arts Council in Inghilterra finanzia i cineasti inglesi c’è un budget e la sovvenzione è destinata al cineasta. L’unica cosa che lui o lei deve fare dopo, è giustificare le spese. È l’ideale. In Francia invece, non funziona così: ho visto la lista di persone che fanno parte della commissione del CNC per i contributi selettivi al cortometraggio, ed è una lotteria: ci sono professionisti della televisione, della pubblicità… Forse c’è una persona che conosce il cinema sperimentale, però sono contraria a questo sistema. Non sapevo nemmeno che fosse obbligatorio avere un produttore per ogni progetto. Il curatore di una mostra mi disse che avrei dovuto fare domanda perché potevo ottenere un aiuto. Ho passato un’intera settimana a preparare un dossier, in diciassette, ho scritto un testo per gente che sicuramente non sapeva niente dei miei metodi di lavoro né del cinema detto «sperimentale». Bisogna dire che avevo già iniziato a girare Fleur de sel. Volevo capire il modo in cui il sole, il vento e l’acqua combinati insieme producevano questa specie di composizione visiva che era assolutamente meravigliosa. Inoltre, era un soggetto molto difficile da filmare, perchè dovevo stare scalza in questo luogo, per non rovinare le varie conche in cui il sale si cristallizza. Dovevo essere veloce, non c’era il tempo di cambiare bobina… In sintesi, dopo aver messo insieme tutto questo dossier, mi diedero quello che presumibilmente era il massimo per questo tipo di film. Tuttavia, questo denaro andò a finire a un produttore (che io non avevo previsto), e non a me. Inoltre il produttore era del tutto incompetente e disonesto. Posso fare diversi esempi per spiegare perché non possiamo lavorare nell’industria. Ad esempio, il produttore mi chiedeva il prezzo dell’attrezzatura per l’illuminazione, il prezzo degli alberghi… Gli dissi che mi sarei fermata in una casetta in una fattoria ecologica, con un ettaro di terreno, un asino, capre, galline, tutto attorno al luogo delle riprese. Era molto meno caro, e molto più appropriato al lavoro, di qualsiasi hotel. Gli dissi che non c’era bisogno di illuminazione, né di un montatore, ecc. (una decina di cose che secondo il produttore erano essenziali per fare un film come si deve). Tuttavia, per le numerose ore di macchina (3) mancava la benzina, e feci il tragitto otto o dieci volte, visto che in alcuni anni non c’erano i quattro giorni di sole necessari affinché il sale potesse cristallizzarsi. Avevo studiato molto quello che era possibile fare, spostandomi in tutte le direzioni all’interno delle saline di Guérande. Nella prima parte del film vediamo la preparazione delle conche in cui il sale si cristallizza. La proprietà apparteneva a una donna che aveva perso il marito, e tutti gli altri salinai venivano a preparare il suo terreno prima del periodo della cristallizzazione del sale. Questa parte venne girata, e la finanziai io stessa prima che il CNC avesse deciso qualcosa. Certo, si firma dichiarando che non si inizierà a girare prima di ottenere la sovvenzione, ma se si aspetta, il film non si fa mai! Durante questa prima parte, conobbi una persona che raccoglieva la salicornia, che si utilizza nelle insalate o come legume. Gli spiegai che avrei fatto un film sulla raccolta del fleur de sel. Mi disse che se volevo filmare la preparazione delle conche, dovevo andare alle quattro del mattino. Mi alzai alle quattro. Visto che non c’era luce a quell’ora, rimasi sorpresa dalla qualità delle immagini. C’era un membro della famiglia che faceva delle fotografie e parlando con lui mi aveva detto che era sicuro che un’apertura a 4 avrebbe funzionato, cosa che avevo fatto istintivamente. Iniziai così. Dopo incontrai un altro salinaio, con cui ho lavorato. Faceva la raccolta con sua moglie in un modo molto elegante, ed erano molto simpatici. Ma avrei lavorato molto meglio senza il produttore. Alloggiavo in un posto molto economico, risparmiavo più che potevo sulle spese di benzina, però ho dovuto aspettare due o tre anni per i rimborsi di ogni giustificativo, che il produttore perdeva. Quindi dovevo tenere diverse fotocopie, e lo stesso accadde con il musicista. Giustificativi perduti, rimborsi con due o tre anni di ritardo. Quindi dovetti finanziare io il film. E tutto andava avanti così. Dopo, chiesi un contenitore di plastica per conservare le copie di proiezione in 16mm: il produttore non sapeva di cosa parlavo. Mi mandò una scatola di metallo per pellicola 35mm. Non sapeva come era fatta una pellicola, non sapeva che si giravano negativi dai quali si ottenevano i positivi, non sapeva che dovevo fare un montaggio, e dopo una copia con la musica. Fui io stessa a pagare la fattura per la unica copia di proiezione che c’è attualmente in distribuzione! 
Questo produttore ha avuto problemi anche con altre persone, ed evidentemente utilizzò i soldi del mio film per altri film. Aveva ricevuto una somma più alta di quella dichiarata dal CNC. Gran parte di questa somma non è mai stata utilizzata per la realizzazione del film, né per il musicista né per me, ci pagarono entrambi molto male. Mi dispiacque moltissimo per questa scelta, perché c’era un altro produttore che avrebbe potuto seguire il film; però mai avrei immaginato che potesse esistere un produttore così incompetente.
Tornando ai film, ho potuto realizzare anche un altro film sulle saline di Guérande, senza produttore stavolta! Quando insegnavo all’università di Paris 1, facevamo Super 8 il primo anno e 16mm il secondo. Ogni studente, oppure gruppi di due o tre, realizzava un film di tre minuti durante il primo semestre. Alla fine, quando lasciai l’università perché avevo raggiunto il limite di età, restavano sei bobine 16mm Kodachrome che non erano state utilizzate. Siccome avevano soppresso il corso che avevo lasciato, le utilizzati per realizzare Jardin du sel. Non avevo mai girato in Kodachrome. È una pellicola magnifica, è un peccato che sia sparita. In quel momento c’era solo un laboratorio negli Stati Uniti che la sviluppava, e dopo chiuse. Gli inviai subito queste sei bobine e riuscii a recuperare il film in extremis. Ma ero felice, perché l’anno in cui girai questo film c’era sale, anche se le condizioni per girare furono molto difficili: non so quante volte ho percorso tutte le conche per capire dove batteva il sole, e bisognava lavorare molto velocemente prima che il salinaio e tutta la sua famiglia raccogliessero il sale.


Quanto tempo ti ci è voluto per realizzare questi due film,  Fleur de sel e Jardin du sel ?

Fleur de sel l’ho finito nel 2010, avevo iniziato nel 2006. Riguardo a Jardin du sel, il film fu girato tutto in una sola sera, tranne il giardino del finale. Non c’era più luce né sale nel luogo in cui mi trovavo, e avevo solo una bobina e non sapevo che farne. E mentre andavo al mercato in bicicletta, a Villeneueve-lès-Avignon, passai davanti a un piccolo parco in cui avevano lasciato crescere dei fiori selvatici, era bellissimo. Sono tornata indietro a cercare la bobina per filmare. Per quest’ultima parte del film, c’è un lavoro di tessitura molto complesso. Ho potuto tessere, in tutti i sensi, con le api, le farfalle e i movimenti dei fiori. Ancora una volta, quando ho stampato il film fu molto difficile ottenere i colori della Kodachrome, perché ci sono dei rossi tra il carminio e il vermiglio, ma se si prova a ottenere quelle tinte, possono andare perduti i fiori azzurri o le foglie verdi.


I Bouquets sono stati girati ognuno in un solo giorno?

Per niente, posso metterci anche una settimana, come nella fattoria italiana del Bouquet 15, per esempio. Inoltre, non si può calcolare in anticipo: ci fu un anno in cui volevo fare qualcosa con i pannelli solari, però non ci fu sole. Arrivammo e ci furono quattro giorni di pioggia! Ogni volta è molto difficile. In una delle fattorie in cui lavoravo per i Bouquets, ho passato quattro giorni osservando le rane e aspettando che saltassero, per il film Habitat batracien (2006). C’era anche un asino che mangiava i miei vestiti, e una mucca che beveva l’acqua dello stagno, ma io non mi muovevo, faceva freddo, bisognava aspettare il sole, era dura. Però le rane sono molto divertenti: ce n’è una che guarda in camera alla fine, e una che salta perché c’era un serpente, che non avevo visto… Mi piace fare film in cui si crea uno scambio con l’ambiente dove mi trovo, da cui imparo qualcosa. Spesso mi trovo in campagna, in un terreno agricolo, e non appartengo a quell’ambiente, e anche alle persone che vivono lì piace avere uno scambio con chi viene dalla città. I problemi ambientali sono spesso simili.


Può parlarci delle sue collaborazioni sia con dei musicisti  (Katie O’Looney, François-Alexis Degrenier) o con il cineasta canadese Carl Brown?

Di nuovo, queste collaborazioni non erano pianificate. Conobbi Katie O’Looney in un festival di musica sperimentale, e alla fine c’era una sessione aperta in cui tutti i musicisti in sala potevano proporre qualcosa. Katie lavora con la batteria, e aveva suonato – non so nemmeno se ha un titolo – una sinfonia mosquito. Improvvisò questo pezzo colpendo tutti gli oggetti della stanza, e mi sembrò ritmicamente originale. Non aveva mai lavorato per un film, però aveva un suo piccolo studio, nel sud-ovest della Francia (adesso vive in Irlanda). Io avevo già filmato buona parte di Quiproquo, e pensai che una musica in questo film poteva essere interessante. Così appena finii di girare le diedi una copia delle immagini. L’unica istruzione che le diedi fu che la musica doveva essere importante tanto quanto le immagini, e che la composizione musicale doveva essere soddisfacente di per sé. Inoltre le chiesi di non cercare una sincronizzazione con le immagini, che è la pratica solita. La mia unica perplessità fu che sincronizzò un po’ più di quanto avrei voluto. Ma alcune persone pensano che il film sia più «accessibile» grazie alla musica. Credo che Kubelka disse che gli sembrava orribile con la musica, che andava proiettato senza suono. Nessuno è d’accordo su questo argomento. Quella fu la mia prima esperienza di lavoro con un compositore. 
Dopo poco conobbi Carl Brown, quando mi invitarono al Congresso di Toronto (5). Pensai che non si erano visti molti film canadesi in Francia, quindi mi fermai un po’ di più a Toronto e vidi tutti i film del Canadian Filmmakers Distribution Centre che non erano distribuiti in Francia. Pensai a otto programmi di film vari che non assomigliavano al mio lavoro, ma che secondo me erano fra i migliori film che non ponevano problemi di lingua e che non erano stati mostrati in Francia. Tra questi film c’erano quelli di Carl Brown, che invitammo insieme ad altri quattro cineasti, quando i film del programma cominciarono a girare. L’interesse per il suo lavoro consisteva nel fatto che sviluppava da sé le pellicole. Facemmo anche un incontro alla Scuola di Belle Arti di Avignone, durante il quale sviluppava le bobine girate dagli studenti. Non so dove Carl Brown vide i miei film, e dopo mi mandò due bobine vergini perché le girassi, dicendomi che le avrebbe sviluppate lui. Per cui girai un’immagine, pensando che con lo sviluppo e la stampa lui ne avrebbe fatta un’altra. Per questo chiamai il film Two Pictures (1999), due immagini, la mia e la sua. Credo ci siano delle cose riuscite in questo film. Poco dopo, Carl mi mandò una seconda bobina, di nuovo, filmai un’immagine, e lui compose il film L’Invitation au voyage (2003). È così che lavorammo insieme. Fu lui a costruire il film, e io a girare le immagini.
Nemmeno Alexis Degrenier, con cui ho lavorato più volte, aveva mai fatto film. Lo vidi a un concerto in un locale vicino casa mia. Aveva studiato in vari conservatori, aveva delle ottime conoscenze musicali. La sua famiglia lavorava, e suo fratello lavora tutt’ora, per l’Opera di Avignone. Gli proposi di realizzare la musica per Fleur de sel. Fu difficile perché alcuni anni fa una malattia rara gli paralizzò le gambe. Per questo non poté andare sul posto di Fleur de sel, anche se questo non rappresentò un problema, perché compone sempre con il suo computer. Fabbricò una serie di suoni con cui lavorò per il film. Ovviamente aveva esattamente la stessa durata delle immagini. Guardammo le immagini insieme e si fecero diverse prove.


A cosa sta lavorando adesso? Sta girando o ha completato qualche nuovo film?

Sono in corso i Bouquets 31-40, ma non so di quanto tempo avrò bisogno. Possono passare anche 5 anni, dipende dal clima. Un altro progetto si chiama Équivalentes. È un omaggio a Alfred Stieglitz, che ha fatto delle piccole e bellissime foto delle nuvole negli anni ‘20, che vidi al Musée d’Orsay, su stampe dell’epoca. Nel caso di Alfred Stieglitz, il titolo si spiega col fatto che volevo fare un paragone, cioè mettere sullo stesso piano pittura e musica, e anche fare un paragone fra il figurativo e l’astratto. Volevo evitare di trattare degli argomenti precisi. Mi interessava perché ancora una volta dimostra che c’è uno spazio per lavorare tra la pittura e la musica, tra il figurativo e l’astratto, tra la realtà del cinema e la realtà filmata. Quando si filma la stessa pellicola possiede una sua realtà, che è diversa dalla realtà di ciò che si filma. Può essere più o meno rappresentativo della realtà, però sappiamo perfettamente che i film più commerciali, con le immagini epiche più grandiose, sono quelle che hanno la maggiore quantità di trucchi, mentre molti spettatori credono di star vedendo la realtà tale e quale. Anche questo ha una relazione con la storia del cinema, perché all’inizio c’erano molti attori, e dietro la camera stavano due persone. Adesso, con gli obiettivi che abbiamo, con la tecnologia che permette di vedere tutto subito, ci sono tre mila persone dietro la camera che tentano di controllare tutto.
C’era una persona a France Musique, Laurent de Wilde, che in un programma su Thelonius Monk, diceva che lui dava da ascoltare più di ciò che suonava. Parlava dei silenzi di Monk. Questo mi interessava molto, credo che bisogna dire qualcosa del genere anche per un film: far vedere più di quello che si è filmato. Se un film fa vedere solo una scena reale, non ne abbiamo bisogno, possiamo guardarla da noi.

Intervista realizzata a Parigi, il 14 marzo del 2012,
revisionata e aggiornata nell’agosto del 2013.

«Donner à voir plus que ce qui est filmé. Entretien avec Rose Lowder», di Éric Thouvenel, Carole Contant. Fabriques du cinéma expérimental. París: Paris Experimental, 2014 – trad. esp. Francisco Algarín Navarro, «Dar a ver más de lo que se ha filmado. Entrevista con Rose Lowder», Lumière, 2019, URL: http://www.elumiere.net/especiales/lowder/entrevistalowder1.php

Note
1 Rouerie è la seconda parte di Roulement, Rouerie, Aubage; le altre sono naturalmente Rouerie e Aubage. Ogni parte fu girata con una pellicola unica e distinta, con le caratteristiche tecniche specificate.
2 Serie di film da 1 minuto, realizzati tra il 1994 e il 2010, che comprende a oggi 30 Bouquets.
3 Questo film fu girato nelle paludi salmastre di Guérande, in Loire-Atlantique, ricordiamo che Rose Lowder vive ad Avignone.
4 Jardin du sel (2011).
5 International Experimental Film Congress, Toronto, 28 maggio – 4 giugno 1989. Dopo questo congresso, Rose Lowder selezionò una serie di film sperimentali canadesi che gli Archives du Film Expérimental d’Avignon fecero girare in diversi paesi d’Europa, e da cui nacque un’opera, La part du visual – Films expérimentaux canadiens récents. Aviñón: Archives du Film Expérimental d’Avignon, 1991.

 * Stills da Bouqeut 3, Bouqeut 1, Bouqeut 6, Rue de teinturiers  © Rose Lowder. Courtesy of Light Cone.

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