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MILANO, VIA PADOVA_rezzamastrella

TROPPOLITANI – MILANO VIA PADOVA

55 min, 2013
condotto e galoppato da Antonio Rezza
ispirazione metafisica Alessandro Massi
interprete multilingua Adil Bahir
immagini Marco Tani, Flavia Mastrella
presa diretta Massimo Simonetti
montaggio Barbara Faonio
produzione RezzaMastrella e Fondazione Gaetano Bertini Malgarini Onlus

Nel film spicca il lavoro di persuasione che è stato fatto negli anni dai mass media sulla popolazione (formata da persone). L’uniformità di argomentazioni relative al razzismo, inibisce il sentimento e lo rende doppiamente grave. Il 21 maggio a Milano in Via Padova, armoniosi e combattivi, iniziamo le interviste:
Antonio Rezza, Flavia Mastrella, Marco Tani, Massimo Simonetti, Ivan Talarico, Daniele Verlezza, Adil Bahir si muovono nella città che si risveglia.
Antonio si guarda attorno, la via è quasi deserta. Il sabato prefestivo consente la tipica sospensione di chi regala a se stesso l’oltraggio di un giorno di riposo. Gli intervistati si concedono con la prepotenza di chi vede in quel tempo perduto un diritto inalienabile.
Affidatoci dalla Fondazione Gaetano Bertini, MILANO VIA PADOVA è un lungometraggio che nasce per eccesso di zelo nel realizzare un’indagine sulla gente che vive la via. Già l’anno prima la Fondazione Bertini ci aveva incaricato di realizzare un documento sul disagio mentale girato in occasione di “Fuori Dove?”, iniziativa a sostegno della Legge Basaglia.
MILANO VIA PADOVA parla di razzismo e insofferenza e racconta, attraverso il canto, la convivenza forzata e la cultura di chi è straniero. È il canto a farci vedere la dolcezza di un ritmo naturale da tempo dimenticato in occidente. A pochi minuti dall’inizio delle interviste Antonio era già integrato, la via che sembrava deserta ha iniziato ad animarsi, la realtà talmente insolita raggiunge picchi performativi quando i problemi personali si associano a quelli sociali. Le risposte, a tratti di frasi fatte, in altri momenti scoordinate con l’aspetto e l’esperienza dell’intervistato, rendono paradossale lo squilibrio sociale. Nel magma di problemi i razzisti sostengono che gridare è un reato e i pacifisti cercano disperatamente di aiutare, di assistere, di voler integrare a tutti i costi chi, per volere politico, viene regolarmente maltrattato. Come se essere integrati fosse una cosa buona. È evidente quanto la mancanza di organizzazione determini la tensione tra gli abitanti che non riescono a comunicare; gli stranieri non sanno l’italiano e gli italiani non conoscono l’inglese. Viviamo inconsapevoli la violenza del disagio, molto peggio di come si possa immaginare. La domanda ricorrente è ”lei ospiterebbe a casa sua un extracomunitario? In un angolo, in cucina, tanto non da fastidio, si mette in un cantuccio e la guarda, si mantiene da solo”. Sembra un quesito assurdo, ma tutti hanno creduto possibile una tale eventualità, la gente per le strade non esclude nessuna possibilità, ognuno di noi si aspetta di tutto. E allora si affaccia un problema aggiuntivo: perché dobbiamo essere uniformi e uniformati? A che serve questo formalismo di democrazia caotica? Forse il problema della diversità è proprio ritenere diverso chi non lo è per niente. Siamo pezzi di carne che va al macello e non basta il colore a salvarci. Né la provenienza e neppure la lingua. Il razzismo è l’uomo che si sopravvaluta e che trova il tempo di scorgere irrisorie diversità sommerse dall’omologazione che dilaga. Gli stranieri, infatti, vogliono quello che vogliono gli italiani, il lavoro, una casa, i diritti. E mai la libertà di decidere autonomamente cosa fare. Noi, come loro, restiamo aggrappati all’infamia utopica della vita civile che ci incatena a una contingenza che crea fossati, voragini di intolleranza. Chi ci obbliga al vivere civile ci impone l’intolleranza sociale. Siamo razzisti su suggerimento dell’istituzione. Siamo razzisti programmati dalle nuove tecniche di persuasione collettiva. E gli
stranieri si adeguano sviluppando un razzismo parallelo foraggiato dalla vita che scorre.

[one_half]Locandina Confusus -[/one_half] [one_half_last]

CONFUSUS

Durata: 50m
Audio: italiano
Formato: Hi 8 – Colore – 1993
Gabbiano d’oro a Bellaria Anteprima 1993

Cast:
soggetto e sceneggiatura
A. Rezza F. Mastrella
scenografia regia A. Rezza F. Mastrella
montaggio A. Rezza, F. Mastrella
costumi A. Rezza F.Mastrella
girato ad Anzio presso la riserva naturale di Tor Caldara
con Raffaela Fantaccione, A. Rezza, Lavinia Novara, F. Mastrella, Emilia De Santis, Maurizio Catania, Chiara Cavalli, Rita Rezza, Davide Sbrolli, Corrado Moglia, Luca Bertagni, Diego Garzia, Daniela Del Balzi, Armando Novara
prodotto da F. Mastrella A. Rezza

Giuseppe, allergico ai diminuitivi, lascia la madre macchiatasi di incesto. Tamara, ragazza rampante, abbandona il padre dopo averlo amato. Giuseppe nel suo peregrinare fa strage di cuori ma, amando la masturbazione, mai si concede e mai si fa toccare. La fama del giovane arriva anche nelle orecchie di Tamara che, dopo vane ricerche, lo incontra al tramontino. I due si innamorano, si sposano e quasi subito si annoiano. In Giuseppe, teorico e semplicistico, aumentano le crisi allergiche dovute alle forme sincopate. Tamara resta incinta, il marito rinnega la paternità, la moglie lo uccide a colpi di diminuitivi. Il bambino nasce con riluttanza, assomiglia al padre e ne eredita la forma allergica…

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[one_half] TROPPOLITANI – VALLE OCCUPATO

60 min, maggio 2012
di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
condotto e galoppato da Antonio Rezza
immagini Marco Tani
seconda macchina Flavia Mastrella
montaggio Barbara Faonio
suono Massimo Simonetti
regia Flavia Mastrella e Antonio Rezza
prodotto da rezzamastrella e teatro valle occupato
segretaria di edizione Giulia Giordano
con Marcello Fonte
con Giampiero Judica
e con la partecipazione degli occupanti del teatro Valle e degli abitanti di Roma
organizzazione Paolo Giovannucci e Daniele Natali[/one_half] [one_half_last]

VALLE OCCUPATO

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L’arte è utile all’uomo?
Gli attori sono adeguati alla società. I passanti sono persone che vogliono sognare ma ormai hanno perso la fiducia, da una parte la pigrizia, dall’altra i condizionamenti e la descolarizzazione, impongono di abbassare la mira e tutti si accontentano di inseguire modeste aspettative dozzinali. La realtà e l’arte non sono in comunicazione, impoveriti dall’individualismo gli attori e gli artisti danzano al ritmo imposto dal potere, si scannano, si prevaricano senza rendersi conto delle possibilità di comunicazione che si aprono muovendosi fuori dal coro. Roma è occupata da ogni passo, il piede camminando occupa fulmineamente il suolo pubblico. Ma questa occupazione non fa notizia perché fulminea. I criteri dell’occupazione li scandisce il tempo. Ma nel caso dell’attore è il sentimento che dà i tempi alla sommossa. E’ possibile occupare stati d’animo attraverso l’interpretazione? E’ possibile occupare un sentimento come fosse spazio? Trattare la frustrazione a metro quadro? Due pesi due misure, il peso della tragedia e quello della distanza. Se lo spazio è distanza chi occupa uno spazio deve mantenersi lontano da sentimenti che non sono suoi. E’ quindi un film sulla dichiarazione di resa dell’attore, sulla futile speranza che un giorno occupazione e sentimento procedano distinti, è un film che parla di una possibilità remota, di una sconfitta annunciata: rinunciare all’interpretazione per dare più importanza ai metri che alle lacrime. E’ possibile immaginare l’attore che rinuncia all’interpretazione di sciagure che non vive, di gioie che non prova, di guerre che non ha combattuto, di malattie che non ha, di genitore di famiglia che non è, di amori che non sente, di morti che non ha mai pianto? E’ possibile
immaginare un giorno l’attore interpretato finalmente da se stesso?
Il racconto, l’impegno sociale, la narrazione, fardelli che fanno meno agile lo spostamento, rendono più difficile la resistenza. Cinema, teatro, letteratura, televisione, occupati dai criteri abusivi dell’immedesimare. Sloggiare l’attore dagli stati d’animo di chi non vuole essere occupato, di chi non lo ha mai chiesto. Liberiamo la vita civile dalla rappresentazione. Questo il primo passo. E poi occupare ogni spazio, svincolati da sentimenti a noleggio. In questo lungometraggio affrontiamo un sondaggio su un frammento di territorio romano per noi inesplorato; abbiamo percorso una traiettoria spontanea dal Teatro Valle all’Isola Tiberina, passando per Campo De Fiori, il Ghetto e (banco dei pegni) Largo Argentina. Durante il tragitto la realtà posturale e dialettica degli intervistati si trasforma continuamente, Roma è una metropoli che esiste in uno spazio tempo indefinibile, metaforico, interessante sotto il profilo estetico devastante a livello ideologico. Nel film, che racconta la deriva di due giorni in ordine cronologico, il teatro è l’antro scuro e sospeso che sopravvive all’umana convinzione di rinnovamento, i rivoluzionari intervistati, rapiti dall’ambiente e dalla loro professione, esprimono opinioni e immaginano soluzioni avvolti nelle belle mura magiche e universali come un tramonto. Il ritmo stridente – dentro il teatro – fuori tra le vie – va a chiarire il ruolo dell’attore e il suo rapporto con la società. Ma l’uomo della strada, spettatore di film moralisti e guerrafondai, celebra come professionista dello spettacolo e star del quotidiano Mara Venier, elemento ionizzante per tutti i ceti sociali.

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