«Joseph Bernard – un’intervista di Jeanette Strezinski»

Page series, Joseph Bernard, 1987

–  Batista Gallery, 17 aprile 2004

Da bambino eri interessato all’arte?
Sì. Facevo incisioni, disegni e persino giocattoli per me. Uno dei miei preferiti era un barattolo di maionese vuoto che avevo riempito con acqua, erba e pezzi di vetro colorati. Lo tenevo davanti agli occhi, in direzione del sole, lo giravo ed era un bellissimo rotolìo di colori e luce. Consiglio di farlo per o con i bambini. In ogni caso, considero ciò come una vera e propria, grande, influenza sui miei film più avanti: pura astrazione di luce, colore e movimento.

Simile a un caleidoscopio?
Sì, ma fatto a mano.

Hai ammirato o sei stato influenzato da qualcuno? Chi ha ispirato o ha sostenuto la tua creatività da bambino?
Mio padre mi ha incoraggiato dal punto di vista visivo e musicale. La mia famiglia, eravamo in sette, apparteneva alla classe operaia, abitavamo nelle case popolari. Mio padre caricava treni per la Railway Express e mia madre faceva la cameriera. È morto quando avevo 15 anni, quindi penso che il livello successivo della creazione artistica sia stato dovuto a me stesso. Le influenze iniziali furono musicisti, scrittori, poeti e, successivamente, pittori.

Ti sei laureato in belle arti presso la University of Hartford / Hartford Art School nel 1970 e poi hai seguito la specializzazione in pittura presso la School of the Art Institute di Chicago nel 1972. La rivoluzione culturale degli anni ’60 e ’70 o qualche artista pop hanno influenzato il tuo lavoro?
No, ma da studente ho incontrato Rauschenberg, Warhol, Indiana, e poi, per la specializzazione, Brakhage è stato un mio insegnante. Durante la guerra in Vietnam ho cercato di fare dell’arte politica, ma un uomo molto saggio mi fece notare che stavo solo parlando a me stesso. La grande lezione è stata scavare più a fondo dentro di me per trovare qualcosa che non fosse solo di attualità, per superare l’attualità politica che cambia continuamente. Non c’è niente di più datato di una canzone folk su Johnson, Nixon o Reagan. Lo stesso si può dire per quasi tutti i problemi del mondo della politica oggi. E in ciò si possono includere politiche sessuali, di governo e religiose. Finiscono per rendermi frustrato, quindi nel mio lavoro, ora, tento di andare oltre l’ovvio e cerco di evitare di predicare.

Questo ti porta a lavorare in un ambiente isolato, underground?
Sì. In realtà stare qui nel Midwest mi aiuta, in contrasto con quanto avviene in entrambe le coste in cui i grandi della scena artistica possono essere più influenti. In realtà è molto salutare qui. Le influenze sono minime. Un esempio storico potrebbe essere Gene Davis con i suoi striped paintings. Il suo lavorare e insegnare a Washington DC in un determinato periodo ha fatto sì che, in quella zona, tutti facessero striped paintings. Una cosa del genere non accade qui. Questo è in realtà un ottimo posto per essere un artista perché c’è l’isolamento che lavora per te. Ma se invece parliamo di essere un artista di successo, allora è un’altra storia. Non è il posto dove poter fare carriera, ma è il luogo dove vivo, lavoro e insegno. Quindi per adesso rimango qui.

Dopo esserti diplomato alla School of the Art Institute di Chicago, c’è stato un periodo in cui hai lavorato con le impronte del corpo, prima di passare al cinema?
In realtà ho iniziato i bodyprints nel ’71 mentre ero al SAIC, dove ho lavorato per ben 5 anni.

Perché abbandonare la pittura per il cinema?
In quel periodo stavo facendo dei dipinti su lastre di vetro 30” x 40” [76.2 x 101.6 cm, n.d.t.], erano sostanzialmente dipinti a collage invertito, e su uno di essi mi è capitato di poggiare le mie impronte digitali in diversi colori sul fondo del vetro. Mi incuriosì la quantità di dettagli che si potevano vedere. Il passo successivo fu di andare oltre e lavorare con porzioni più grandi del corpo, spalle e testa, tutte le immagini con tre quarti di corpo vennero fatte su delle lastre di vetro ricoperte di gesso. Divennero bianche su bianche, molto pure e in fin dei conti piuttosto difficili da percepire, fino a quando l’immagine letteralmente scomparve. Mi sembrò il momento giusto per chiudere quel ciclo di lavori, proprio quando stavo iniziando a usare una cinepresa Super-8 e ne diventai molto infatuato, ripensando ai miei studi con Brakhage.

Quale pensi sia stato il tuo ruolo nell’industria in quanto cineasta?
Zero, niente. È stato uno sforzo personale che non aveva assolutamente niente a che fare con l’industria cinematografica, è stata un’operazione individuale. Comprai l’attrezzatura, la pellicola e la macchina da presa, ci pensai su, ci lavorai, e una volta che film erano montati li portavo, con il mio proiettore e lo schermo, ovunque fosse possibile proiettarli. Era tutto piuttosto solitario.



Simile alla tua pratica di dipingere in isolamento?
Sì. Somiglia molto all’atto di dipingere. Con strumenti diversi, ma con la stessa sensibilità del collage.

Dopo aver visto il tuo film Night Mix, che per me è straordinario su molti livelli sensoriali, mi sono chiesta perché fare dei film muti in uno stile non narrativo. Perché creare dei collage di film di luce rifratta, con movimenti frammentati, oggetti, colori e persone, che sembrano essere coerenti con i tuoi body prints, cinema e pittura. Perché i collage?
Beh è l’idea di prendere le cose che sono lì e farne qualcos’altro. Mi piace il presupposto di trovare piuttosto che cercare, e l’idea di raccogliere qualcosa e combinarla con qualcos’altro, e fare in modo che sia qualcosa di veramente inaspettato. Non essere in grado di anticipare cosa potrebbero essere queste due o tre cose una volta riunite, questo fa parte del gioco. Fa parte dell’esplorazione, dell’improvvisazione.

Un riflesso dell’esperienza della vita stessa?
Beh, si. Potrebbe benissimo essere una metafora della vita. Sei quello che sei a causa di quando e dove sei nato, e provi a fare qualcosa di tutto questo. Hai scelto una scuola, cosa indossare, come mangiare, cosa guidare, e questo è molto simile al collage o all’assemblaggio di cui tutti facciamo parte che viene chiamato società. Col mio lavoro porto delle parti in un insieme.


Perché ritornare dal cinema alla pittura, specialmente in un periodo della tua carriera da cineasta in cui il tuo lavoro era accolto bene e stavi diventando conosciuto nell’industria della videoarte? Hai ricevuto parecchi premi e riconoscimenti nel Michigan, i tuoi film sono stati proiettati al Museum of Modem Art di New York, al Funnel Film Theatre di Toronto, al Chicago Filmmakers, al Detroit lnstitute of the Arts.
Non escluderei la possibilità che sono un perfetto idiota. Ma ero anche in contrasto con la Kodak Corporation. C’erano dei problemi tecnici; i laboratori stavano chiudendo, stava diventando sempre più difficile sviluppare la pellicola. Le cose si stavano convertendo al video e io ero un filmmaker non un video maker. L’apprezzamento che avevo ricevuto era dovuto alla risoluzione, all’alta qualità, all’aspetto manuale. Ancora una volta, una specie di collage. Tagliare piccoli pezzi di plastica e poi ricongiungerli in un modo diverso, cosa che aveva un enorme fascino ma allo stesso tempo quasi nulla veniva scritto o detto sui miei lavori, il denaro andava in una direzione, i film non erano in vendita. Niente di tutto ciò mi importava. L’ho fatto molto seriamente per dieci anni, realizzando oltre cento film. E alcuni di loro sono ancora molto validi: conservano i loro intenti, venticinque anni dopo. Ma qualcos’altro aveva fatto il suo corso e sono tornato alla manipolazione dei materiali dei collage che erano stati usati per i film. Ne ho fatto dei grandi fogli e alla fine quegli arazzi di plastica sono stati attaccati a pannelli di legno, con l’aggiunta di vernice acrilica e di tutti quei materiali traslucidi che stavo usando come bucce di cipolla, alghe, pezzi di pellicola cinematografica, piume e il resto sono diventati dipinti. Si tende a scivolare dentro e fuori da queste cose e io tendo a farlo in cicli di dieci anni. Sono solo fortunato di aver vissuto a lungo, e di essere entrato e uscito da alcune di queste attività ma, va detto, sono state condotte in modo approfondito e ossessivo.


La tua opera ritrae un artista dalle caratteristiche coinvolgenti. Perché selezioni fiori secchi, materiali organici morti, cut-up di film scartati da altri artisti, immagini spezzate di alfabeti? La selezione degli oggetti ha qualche relazione concettuale tra ogni dipinto?
Sinceramente non avevo mai messo insieme consapevolmente un elenco del genere. Suona come se fossi attratto dagli scarti o dalle rotture, e molto probabilmente lo sono. Penso che ci sia tanta bellezza in un fiore morto essiccato quanto in uno vivente. Non sono infastidito dall’usura o dalle fratture di questi materiali e delle pellicole, purché siano i film degli altri ad essere danneggiati o pestati. Ne sono attratto. Hanno una bellezza e una credibilità che mi attraggono.


Lavorare su molteplici strati, mettendo in contrasto materiali organici con oggetti geometrici. Lo fai per tentare di creare una tensione?
No, spero davvero che qualcosa si risolva. Sono molto consapevole che sto mescolando questi opposti – l’organico e la geometria, e c’è sempre stata una divisione – due categorie separate secondo la maggior parte degli storici dell’arte, e sono attratto dal loro mix. Sono due scuole apposte – l’espressionista contro la minimalista – l’una ha una sorta di coraggio romantico, l’altra un classicismo pulito e spigoloso, e entrambe sono piene di spirito. Una sfocatura meravigliosa per l’una e una chiarezza strutturata per l’altra. Entrambe mi attraggono e quindi le cavalco tutte e due cercando di trarre da questi due opposti qualcosa di sensato e di bello. Penso sia una sfida alla quale reagisco. Complessità e semplicità sono due cose che esistono in tutti noi.


Possiamo vedere il tuo film in opposizione ai tuoi dipinti – struttura contro astrazione o caos – sei d’accordo?
Se tu avessi l’opportunità di vedere il mio film altre due o tre volte, allora vedresti una struttura proprio come sentiresti una struttura in una sinfonia – potresti percepire più facilmente un inizio, una parte centrale, una fine. Un senso di ripetizione, noteresti i ritmi, tutto ciò molto difficile da cogliere la prima volta. È quasi come se avessi gli occhi troppo vicini a una parte di un dipinto, e poi a un’altra parte ancora, piuttosto che vederlo nel suo insieme. Con un dipinto è un po’ più facile – ti avvicini e lo accetti. Il film è un’arte del tempo – non puoi vederlo nella sua interezza in un determinato momento. Solo nella tua mente puoi percepirne la totalità. Guardando di nuovo quel film lo troveresti meno “caotico” e per ciò che riguarda i dipinti, potrei essere tentato di descriverli come se avessero lo stesso tumulto organico ma all’interno di una struttura formale. Tutte le opere d’arte complesse funzionano allo stesso modo, ci ritorni di nuovo, con visioni ripetute si arricchisce l’esperienza.

Vedo questa ripetitività nei tuoi quadri. Sento di poter rivisitare il tuo lavoro ancora e ancora e trovare nuovi dettagli intricati che non avevo notato la prima volta.
Per me è importante, visto che evolvo e cambio nel tempo. In questa mostra stiamo osservando diciotto anni di lavoro di una persona. Sono curioso di vedere l’esposizione tanto quanto lo sono quando lavoro a un’opera, perché sarà un nuovo mix. L’installazione delle opere non segue un ordine cronologico intenzionalmente. Vorrei che qualcosa che ho fatto dieci o quindici anni fa fosse messo accanto a una cosa fatta poche settimane fa, penso che queste combinazioni mi offriranno una visione più fresca.

Quanto è focalizzata la tua visione della pittura? Prevedi di tornare a fare film? A cosa lavorerai dopo?
Mi piacerebbe avere due vite parallele almeno – per poter fare entrambe le cose – la giornata non è abbastanza lunga. Ora sono in grado di combinare alcuni aspetti del fare cinema nei dipinti. Posso manipolare queste foto di riviste trasformandole in ciò che non sono mai state. Questo mi interessa. Quindi probabilmente continuerò a lavorare come pittore di collage per un po’. Almeno questo è quello che dico oggi.

Non vediamo l’ora di vedere i tuoi lavori futuri.
Grazie Jeanette, non vedo l’ora di vederli io stesso.

[L’articolo originale è pubblicato al seguente link: http://www.josephbernard.com/battista-gallery-interview-j-strezinski-4-2004 / traduzione italiana di Giuseppe Spina, revisione di Stefano Miraglia]

 

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